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lunedì, ottobre 13, 2014

“E viddi ’l cerchio de la ròta. Allora me resi conto!”

2015 anno degli Etruschi - I pirati della bellezza - Le parole Pietro Bozzini alla vista della biga di castro durante gli scavi
di Antonello Ricci









Museo Nazionale etrusco – Un’immagine del ritrovamento della biga di Castro


Museo Nazionale etrusco – Un’immagine del ritrovamento della biga di Castro


Museo Nazionale etrusco – Un’immagine del ritrovamento della biga di Castro




Museo Nazionale etrusco – Un’immagine del ritrovamento della biga di Castro



Etruschi – La biga di Castro – Pietro Bozzini




Etruschi – La biga di Castro – Pietro Bozzini





Il Museo nazionale Etrusco alla rocca degli Albornoz – La biga di Castro





Il Museo nazionale Etrusco alla rocca degli Albornoz – La biga di Castro





Il Museo nazionale Etrusco alla rocca degli Albornoz – La biga di Castro





Il Museo nazionale Etrusco alla rocca degli Albornoz – La biga di Castro





Il Museo nazionale Etrusco alla rocca degli Albornoz – La biga di Castro
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Viterbo – “E viddi ’l cerchio de la ròta. Allora me resi conto!” 

Passavamo a visitarlo spesso, la domenica al tramonto, prima di ripartire.
La penombra di casa sua, la porta a vetri socchiusa sulla strada, nel vicolo più fondo del didentro, giù verso la prua dell’acrocoro di Ischia. Quei racconti intorno al tavolo, il goccio di vino, la voce che d’un tratto si faceva bassa, tesa, il gesto epicamente trattenuto.

Era stato lui ad agganciare qualcosa. Scavavano a trincea, sul ripido costone che precipita all’Ólpeta, di fronte al pianoro della distrutta città di Castro. La città-bosco. Andavano per saggi. Finché avevano trovato el dromose. Era il 10 ottobre 1967, pomeriggio.

L’archeologo, il belga Poupé, vide Pietro impugnare l’attrezzo leggero e scarnire il bruno del terriccio. Che succede? chiedeva. Pietro scavava. E parlavano, tiravano a indovinare.

La cosa, intanto, riemergeva dal nero tempo. Giunti al parapetto, pareva loro una ciotola, una poltrona al corrimano, una carrozzella, scherzavano sul paralitico che avrebbero disseppellito. Poi venne fuori il cerchio della ruota: era la biga. A questo punto io (facevo la prima elementare) restavo a bocca aperta. Pietro s’interrompeva, spariva nel buio della sua camera. La zia versava un po’ di vino. Poi lui ricompariva, dal nulla, alla luce del neon. Teneva in mano una vecchia scatola come uno scrigno.

Me la mostrava: spersa fra spille da balia matite smozzicate fili bottoni fibbie e centomila altre minuzie, qualche scheggia di bucchero. Perplesso rovistava a lungo, smoveva, scavava, pareva destinato a non trovare quel che cercava. Ma ecco: una piccola moneta. Ci soffiava su, se la fregava sui calzoni e sorridendo me la donava.

“E poi viddi ’l cerchio”. Quelli di Pietro Bozzini erano racconti a regola d’arte. Li aveva ripetuti una vita, a chiunque avesse incontrato sulla propria strada e lo fosse stato a sentire. Come il Vecchio Marinaio di Coleridge. Li aveva corretti smussati levigati, per farli più belli e consegnarli al futuro. E si capiva subito che le parole non potevano bastargli. Non ce la faceva a stare fermo. Aveva bisogno di voltarsi, gesticolare, buttarsi in ginocchio. Aveva bisogno delle mani, per spiegare. Un termine archeologico, la descrizione d’una tomba o d’una tecnica di scavo, un ritrovamento inatteso. Impastava storie e ricordi come buccheri.

Pietro sorrideva e pareva un satiro dolce. Era forse il giorno che aspettava da sempre. Perché quel che lui sapeva, ormai, non lo sa più nessuno. Il nero tempo e l’omologazione culturale hanno inghiottito per sempre quell’archivio vivente, la sua cattedra di etruscologia popolare. Un mestiere che egli stesso esitava a definire, collocandolo a mezza strada tra ispirazione poetica (“è ’n dono de natura”) ed erudizione (emancipazione) culturale.

Pietro si sentiva infatti rabdomante di tombe, ma aveva lavorato a stretto contatto con accademici di chiara fama (basti, per tutti, Rittatore Vonwiller) e compaesani storiografi bruciati dalla febbre del localismo. Di tutti rievocava e rivendicava oggi il prezioso magistero.

Ma negli ultimi anni era in cerca lui stesso d’un discepolo cui affidare tale bagaglio, complesso e ineffabile, di saperi orali e di tecniche manuali. Sapienza artigianale che passava per quelle mani di operaio alle cave sulla via per Manciano. Testimone preziosissimo, con la sua stessa vita, d’un secolo di archeologia: dall’ormai mitico periodo che aveva preceduto la Legge del 1939, crepuscolo degli eroismi ottocenteschi pirateschi e mercatanti alla Schliemann, alle grandi campagne di scavo in Etruria Meridionale per tutti gli anni Sessanta e Settanta.

Protagonista di ritrovamenti sensazionali: dalla tomba del carro a Vulci, alla celeberrima biga da combattimento rinvenuta a Castro nell’ottobre 1967 (“c’èreno pure le coltelle, ’n del mozzo de la ròta, io l’ho viste”). Esperienza e memoria. Un patrimonio da difendere e tramandare. Ma occorreva fare in fretta. Che peccato.

Pietro Bozzini era nato a Ischia di Castro nel 1923. Come tanti contadini italiani aveva fatto solo la prima elementare. Aveva tirato latte dalla nonna Rosa (Pepe di cognome, ed era “peperina” sul serio) insieme con la zi’ Cencia, sorella minore di mia madre. Eravamo cugini carnali, insomma. Ma avrebbe potuto essermi nonno. E all’improvviso, una volta, mi raccontò proprio di Giàchimo. Giacomo Borgognoni, suo nonno, mio nonno. Che non ho mai conosciuto.

La volta che “tirò fòri la cinghia” perché Pietro e Cencina avevano buttato un pezzo di pane per terra, dietro la madia: – E pensà che ògge ne sprecamo tanto! Giacomo era morto di polmonite all’inizio degli anni Trenta. Mia madre (classe 1921) era stata a vivere a Roma col fratello maggiore, sottufficiale d’aeronautica, tanto più grande da poterle essere padre. Dovette sentirsi esiliata. Fu come perdesse la memoria. Per la prima volta, in quel pomeriggio di luglio, fuori dal bar dei miei cugini, mentre bevevo una birretta e ascoltavo Pietro, rividi nonno Giacomo vivere e agire. Non più lontano fantasma ma personaggio in carne e ossa. Fu un regalo meraviglioso.

La sapienza di Pietro era nelle sue mani. La sua storia nel linguaggio che usava. Le sonorità, le frasi spezzate, le esclamazioni, il lessico desueto, gli intercalari formulaici di un dialetto antico di Maremma laziale. Lingua solenne che se da una parte non può ambire alla purità d’acqua fresca del toscano (pure, da quelle parti, così vicino) dall’altra resta infinitamente lontana dal romanesco. Così nobile e domestica, così brancaleonesca, coi suoi verbi tronchi e le “e” finali al posto delle “i”. E poi era come un’onda, la parlata di Pietro. Saliva o scendeva a seconda del pathos narrativo.

Suonava fortissimo, ad esempio, quando rievocava lo stupore d’un ritrovamento o l’amarezza per un’offesa subita. Stupefacente quando doveva spiegare certe espressioni scientifiche, con Pietro che s’interrompeva per cercare un sinonimo o una perifrasi adatti. Strumento perfetto e “naturale” per l’autoritratto e il testamento d’un uomo come lui.

Antonello Ricci
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Il racconto di Pietro, gli istanti del ritrovamento

La biga di Castro: la scoperta che vale una vita

“Era ai primmi d’ottobbre del Sessantasette. Allora me cambiarono, me misero nell’ultima trincea. Lì c’è stata la scoperta.

La seppultura, oltre che la famosa biga, c’aveva un bellissimo imbillimento sopra. Un coso a blocche, a mezza luna. Quello l’ho scoperto io, co’ le sacrifice, col fòco. Ogni metro c’era ’l fòco, ’l sacrificio. Un significato come una pista.

A ’n certo punto, co’ la trincea vò a finì proprio sopra a la porta. C’era la scultura in nenfro, che non se sa se era una sfinge, se era ’n leone. Poteva èsse’ pure un leone. È un segnale che rimane al cippo funerario.

Quando noantri ’émo trovato el dròmose, avémo fatto co’ le picchettature. In quel pezzo de terreno se facevano de le picchettature larghe un metro e lunghe fino alla fine, dov’era ’l pendio. Poi se scavava fino al masso. El cavo a trincea, se dice così. Tu vae co’ le strate, a mano a mano, vae giù, a ’n certo punto arrive al masso. Devi conoscere ’l terreno, quanno te cambia, è quello l’importante. Appena ritrove ’l taglio, se trova ’l taglio quadrato, pòe se cerca la strada. ’L dròmose se vede come è formato. Se è una “T”, bisogna vedéllo tutto. Trovi l’angolo de la strada e pòe va’ ’ppresso, segui la tajàta, lo squadri tutto. Questo c’aveva ’na lunghezza de sette-otto metre, non era un dròmose commune.

È un dròmose che c’ha due ingressi, però el vano è unico. La biga poggiava lì, le porte stanno proprio davante all’angoli de la strada, una a sinistra, una a destra. Dalla porta dell’angolo sinistro erano entrati pel saccheggio, avevano saccheggiato la tomba. Dalla porta dell’angolo destro, lì non erano entrate, perché sennò la biga l’avevano trovata.

La biga non era dentro a la tomba, era fòre. Stava co’ la ròta poggiata a la porta, al blocco di chiusura. Co’ la ròta poggiava proprio a la porta. La biga rimaneva tutta su la porta a destra e s’è salvata dal saccheggio. Da lì partiva ’l timone, annava all’angolo sinistro, non dava fastidio, non se conosceva gnente, che dentro al dròmose c’era la biga. Lì nell’angolo c’era un buco, fatto nel mezzo pe’ fa’ sta’ ’l timone e lì c’ erano le cinghie de li finimenti de bronzo.

Quando noantri scavavamo dentro ’l dròmose, se lavorava ’n po’ col piccone, primma. ’L piccone ’n po’ devasta, però, secondo come s’addòpera, la persona sta sempre attenta, vicino a le porte. Noantri le porte le capìmo da ’n piccolo risucchio che fanno, d’infiltrazione. Benché la porta è siggillata, un piccolo risucchio, un po’ d’aria c’è sempre. Pòe dentro c’era l’acqua, era piena d’acqua, l’acqua era su all’ultimo blocco, era questo el fatto. Era un lavoro d’attenzione”.

E viddi ’l cerchio de la ròta: allora me resi conto!

“Co’ la punta del piccone agganciai ’l parapetto de la Biga da sopra. Me n’accorse, e piano piano prese l’attrezzo leggero, cominciai a scarnillo, pe’ vedé de che se trattava. Un bronzo ’n quel modo! A ’n certo punto, lì c’era ’l professore, Pupé. Me disse: – Piè, che succede?, quanno me vide coll’attrezzo leggero. – Professó, me sembra ’na ciotola, ’na bacinella. Comincio a scavà piano piano, arrivo, fa’ conto, do’ sta che s’appoggiano le mano. Allora lì rimasi ’n po’ sorpreso, non sapevo che cos’era. Io avevo veduto qualch’altra biga, ma cose rituali, no ’n carro in quel modo, vero e proprio. E poi fra la terra se distingueva poco. Allora ’l professore me diceva: – Pietro, che succede? Che robba è? Questo era ’mpaziente, innervosito, lo vedevo. Je dissi: – E qué me sembra ’na poltrona, ’na carrozzella. Allora lue me scappa: – Ma ch’hanno sepolto, ’n paralitico? Io continuo, e calo giù, piano piano. A ’n certo punto, m’abbasso ancora ’n pochettino, all’altezza de la ròta, e viddi ’l cerchio de la ròta. Allora me resi conto: – All’anima d’un paralitico! Qué è ’n carro, ’na biga da combattimento, je dissi. Era consumata, c’era ’na lamina che ricopriva ’l legno e è uscito fòri ’sto carro, ’n carro da parata. A me, veramente, me sembrava ’n carro da combattimento, lì per lì. C’émo messo ’n paio de giorni a scarnilla fino a sopra la pedana. Dòppo ne la strada de la tomba ’émo trovato i cavalli”.

Foto ricordo con l’Etrusco

“Io c’avevo ’n difetto, che nelle fotografie ero allergico, proprio non volevo. Qui sopra, qui, lo vede?, qui c’è la spalliera. Questo è Pupé. Qui sopra [sulla pedana della Biga] a me me ce l’avrà fatte trecento de fotografie. Dice: – Sei come un Romano, sei tozzo! Ero robbusto. La statura romana!”.

Pietro Bozzini
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Chi era Pietro Bozzini

Sul principio dei Duemila le storie di Pietro Bozzini divennero un libro millelire: Seppellitemi con lo spillone
Autobiografia di un tombarolo gentile raccolta da Antonello Ricci, foto David De Carolis, Roma 2003.
 Nel settembre di quello stesso anno Pietro fu uno degli scrittori-analfabeti protagonisti del “Primo festival di letteratura resistente” promosso da Stampalternativa e tenutosi a Pitigliano. Per alcuni mesi, poi, sul “tombarolo gentile” si accesero i riflettori mediatici: dal Venerdì di Repubblica a Unomattina, rotocalchi di gossip compresi. Una cosa straordinaria: Pietro continuò a raccontarsi così, con la naturalezza di chi parlasse a una veglia contadina. Con l’aristocrazia dell’autoconsapevolezza: prima fra le sue storie, infatti, quella di orgoglio e vanto di aver salvato lui, con l’esperienza e la sensibilità rabdomantica delle sue mani, il bronzo della biga di Castro dalla furia frettolosa del piccone.

3 commenti:

AMg ha detto...

Reeta mi scrive:
"Perché si chiama una biga e non una carrozza. Non ti dico quanto mi fa piacere leggere questi,
Pezzi tuoi. Sto imparando così tanto sul un popolo che mi è molto caro. E non solo per loro cavalli artistici.
Grazie.
Baci, abbracci,
Reeta

AMg ha detto...

Ciao Reeta !
Bella la storia del ritrovamento della biga, vero? A proposito si chiama biga perche' ha solo 2 ruote e non 4 come il carro ( bi= 2, come binary). La biga, in genere con 2 cavalli, portava molto velocemente 1 o meglio 2 persone (l'auriga che guidava e il guerriero con arco o lancia). Pare fosse stata inventata in Egitto, all'epoca di Ramses II, per velocizzare gli assalti nelle battaglie e gli Etruschi hanno avuto strettissimi rapporti con l'Egitto fin dall' VIII sec a. C.
Un abbraccio e un sacco di baci
Alba

paolo ha detto...

è stato bello scoprire storie della mia famiglia che vagamente conoscevo