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mercoledì, dicembre 11, 2013

Plagio o libertà creativa dell’artista?

 Da Il Giornale dell'ARTE.COM

 Un interessantissimo aggiornamento che coinvolge il recycling di immagini e questioni relative al diritto d'autore.

Alba Montori

 

Dove finisce il diritto di «riciclare» qualsiasi immagine per «fare arte»

Plagio o libertà creativa dell’artista?

Il riutilizzo da parte degli artisti di immagini della stampa e della pubblicità non è talvolta gradito ai fotografi che portano il caso in tribunale. Come distinguere la violazione del diritto d’autore dal «prestito» ispiratore che dà vita a una nuova opera? Chi si appropria di un’immagine, o di parte di essa, dovrebbe procedere a una trasformazione creativa di quest’ultima ma il giudizio sull’entità dell’intervento è soggettivo. Il rischio è quello di limitare la creatività e la libertà di espressione. Negli anni Settanta era stato codificato il concetto del «fair use», ma i criteri sui quali si fonda questo diritto creativo continuano a essere oggetto di discussione

Il fotoreporter francese Patrick Cariou ha fatto causa all'artista statunitense Richard Prince, accusandolo di aver preso di peso una quarantina di foto del suo reportage «Yes Rasta» (a sinistra uno degli scatti), modificandole ed esponendole nella serie «Canal Zone» (foto a destra). I giudici, che in un primo momento avevano dato ragione al fotografo, hanno successivamente ribaltato la sentenza: l’artista americano avrebbe infatti sufficientemente trasformato almeno 25 delle fotografie di Cariou. La rielaborazione di immagini altrui, manifesti o oggetti di uso comune è del resto la cifra di gran parte delle opere di Prince. Notissima è la sua reinterpretazione della campagna pubblicitaria MarlboroÈ un video di Richard Prince, il ricco e famoso artista americano. È passato lo scorso 6 giugno sul sito Vimeo, annunciato da un tweet. Il gesto è incredibile: Richard Prince cosparge di benzina e poi brucia in diretta uno dei suoi quadri, «Graduation», un grande collage su tela raffigurante un rasta dal viso macchiato di blu che tiene in mano una chitarra elettrica. Questo lavoro aveva già fatto il giro di internet in maggio, perché apparteneva alla serie di cinque opere dell’artista oggetto di un clamoroso processo legale intentato dal fotografo francese Patrick Cariou.
Oggetto del contendere? Trenta grandi collage fotografici su tela con sfondi di color ocra, rosso o blu. Graffiti e ridipinti da Richard Prince, i collage mostrano rasta e provocanti donne nude. Alcune tele ricordano, in versione trash, «Les Demoiselles d’Avignon» di Picasso, altre si presentano come ampi ritratti fotografici in bianco e nero attraversati da colpi di pennello. La serie, esposta nel 2007 sull’Isola di Saint-Barthélemy e poi, nel 2008, alla galleria Gagosian di New York, si intitola «Canal Zone». Il suo successo è immediato: una delle tele è venduta per 2,43 milioni di dollari (1,86 milioni di euro).
Per realizzare «Canal Zone», Richard Prince si è «appropriato», per sua stessa ammissione, di un gran numero di fotografie del libro di Patrick Cariou Yes Rasta (PowerHouse Books, 2000). Senza avvertire, senza citare le sue fonti e senza chiedere l’autorizzazione all’editore. Ventotto di queste, molto ingrandite, sono state riprodotte, in parte o totalmente, sulle sue tele. Se per la maggior parte sono graffite, ridipinte, colorate e ritagliate, esse restano molto riconoscibili, una pratica corrente dell’arte dell’appropriazione nata negli inizi degli anni ’80.
Lo storico dell’arte Camille Debrabant scrive sul numero 23 della rivista «Figures de l’art»: «Questi artisti giustificano la natura ibrida delle loro opere (...), accomunate da un uso della fotografia che consiste nel “prendere”, inteso nel senso letterale di “appropriarsi” delle immagini di altri». Appropriandosi di immagini trovate sui giornali, nell’arte popolare e nella pubblicità, universi che essi considerano come archetipi, ne modificano il significato, apportando una nuova visione critica e artistica.
Allo scopo di denunciare l’uso pubblicitario dell’immagine femminile, l’artista americana Barbara Kruger ha così, nel 1982, ritagliato un viso femminile da una rivista che ha dilaniato come in uno specchio rotto, scrivendo tutto intorno a lettere cubitali nere: «Non sei tu».
Richard Prince, per parte sua, si è fatto conoscere «rifotografando» una foto dell’attrice Brooke Shields all’età di 10 anni, oliata, nuda e truccata, scattata nel 1975 da Gary Gross per la rivista «Playboy». Richard Prince l’ha rinominata «Spiritual America», titolo preso in prestito dalla fotografia di Alfred Stieglitz di un cavallo legato e castrato, e l’ha esposta in una cornice dorata dozzinale. Nel 1999 quest’opera è stata venduta per 151mila dollari (116mila euro) da Christie’s.
Richard Prince ha anche legato la sua reputazione di enfant terrible della riappropriazione rifotografando delle pubblicità Marlboro che mostravano dei cowboy a cavallo. Una di queste stampe, «Untitled (cowboy)», diventata oggi una delle icone dell’America, è stata venduta per 3,4 milioni di dollari (2,6 milioni di euro) nel 2008. Quando Jim Krantz, il fotografo che aveva realizzato la campagna della Marlboro, ha visto al Guggenheim di New York le sue fotografie modificate, ha dichiarato di non sapere se «esserne fiero» o considerarsi «un idiota».
Venuto a conoscenza dell’utilizzo in «Canal Zone» delle sue foto di rasta, Patrick Cariou ha citato in giudizio sia Richard Prince sia il gallerista Larry Gagosian, uno degli uomini forti del mercato dell’arte contemporanea. «Ho passato sei anni in Giamaica con i rasta che vivono alla macchia, sulle montagne», spiega il fotoreporter, «c’è voluto del tempo per convincerli e per comporre i miei ritratti. Non sono contrario al fatto che degli artisti ridipingano o ritaglino delle foto, comprendo le loro pratiche, ma mi oppongo a un prestito così consistente».
Patrick Cariou non immaginava, attaccando Richard Prince, di innescare una reazione a catena che avrebbe coinvolto le gallerie, i musei e le agenzie fotografiche del mondo intero. Al centro della controversia il ruolo del prestito nell’arte e il nuovo status delle immagini nell’epoca dello tsunami visuale che è diventato internet.
La storia dell’arte è costellata di opere «alla maniera di», «ispirate a», citazioni e copie di opere anteriori. Se ne nutre. Gli specialisti citano sovente «Le déjeuner sur l’herbe» di Manet (1863), che fu fortemente ispirato da una stampa di Marcantonio Raimondi (1480-1534) che riproduceva un’opera perduta di Raffaello, «Il giudizio di Paride». In un gesto costitutivo della loro arte, i rappresentanti della Pop art Andy Warhol e Roy Lichtenstein hanno ripreso anche loro, su serigrafie e tele, immagini della pubblicità e dei fumetti, colorandole, modificandole.
La tradizione è antica, ma negli anni ’70 i tribunali, in particolare negli Stati Uniti, si sono dovuti confrontare con una questione difficile: come distinguere la pura e semplice violazione del diritto d’autore dal prestito ispiratore che dà vita a una nuova opera d’arte? «Il diritto d’autore e la libertà artistica sono sempre stati in tensione», spiega la giurista June Besek, direttrice esecutiva del Kernochan Center for Law, Media and the Arts (Columbia Law School, Stati Uniti). «Il diritto d’autore è il motore della libertà d’espressione e la sua protezione incoraggia la diffusione delle opere, ma non dovrebbe comunque limitare la libertà di creazione e di espressione: sarebbe contrario al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti».
Per separare il grano dal loglio, la giustizia americana ha creato il concetto di «fair use». Codificato dal Copyright Act americano nel 1976, questo concetto permette al giudice di determinare, attraverso quattro criteri, se il prestito sia o meno «leale». Il primo criterio, il più importante, concerne «la finalità e il carattere» del riutilizzo dell’opera originale. «Si tratta di sapere se la nuova opera “trasformi” la prima, cioè se ne cambi la “natura”, il “significato” e il “messaggio”», spiega la giurista Séverine Dusollier, che ha studiato il caso Cariou-Prince per il Centre de recherche informatique et droit (Crid) dell’Università di Namur (Belgio). La trasformazione è un concetto chiave: perché il prestito sia considerato legittimo, occorre che l’artista abbia creato una nuova opera.
Il secondo criterio rimanda all’universo artistico: il «fair use» è tanto più facilmente riconosciuto se la nuova opera appartiene a un’altra disciplina rispetto a quella presa in prestito. Il terzo è legato all’estensione del prestito: la «parte utilizzata» non deve essere troppo ampia. Il quarto punto si basa su considerazioni di carattere commerciale: perché si tratti di «fair use» non bisogna che la nuova opera disturbi il «mercato potenziale» di quella che è stata modificata.
Il processo intentato nel 1991 all’artista americano Jeff Koons ha permesso di definire più precisamente questo concetto di «fair use». Jeff Koons era stato attaccato dal fotografo americano Art Rogers, autore di una famosa cartolina in bianco e nero che ritraeva un’anziana coppia con otto cuccioli. Senza chiedergli l’autorizzazione, Jeff Koons aveva realizzato una scultura in legno policromo di 37 cm d’altezza che riproduceva fedelmente quest’immagine, con una sola differenza: gli animali erano blu. Ne aveva venduti all’epoca tre esemplari per 367mila dollari (282mila euro).
Durante il processo, Jeff Koons aveva sostenuto di aver realizzato una «parodia» della cartolina, creando in tal modo un’opera di «natura diversa». La corte aveva tuttavia contestato questo argomento: «è difficile distinguere la parodia dalla fotografia stessa» aveva dichiarato sottolineando le forti somiglianze tra la cartolina e la scultura. Jeff Koons era stato condannato per uso sleale dell’opera di Art Rogers.
Nel corso di un secondo processo intentato nei confronti di Jeff Koons quindici anni più tardi, la giustizia precisò ulteriormente la definizione del «fair use». Per realizzare «Niagara» l’artista aveva utilizzato una fotografia di Andrea Branch pubblicata sulla rivista «Allure», due gambe nude con sandali di Gucci. L’aveva ingrandita e integrata in un collage su tela che rappresentava diverse paia di gambe sullo sfondo delle cascata del Niagara. Nel 2006, la corte di New York riconobbe in questo caso il «fair use» stimando che Jeff Koons avesse utilizzato la foto ritagliata come «materiale grezzo» e che il suo lavoro fosse «altamente trasformatore».
Il processo del famoso caso Cariou contro Prince ha avuto luogo il 18 marzo 2011, davanti a una corte federale di New York. Quando il giudice Deborah A. Batts ha chiesto all’artista se avesse «cercato di creare qualcosa con un significato o un messaggio nuovo» questi ha risposto «no». Il giudice ne ha logicamente tratto le conseguenze: constatando che la trasformazione delle foto di Patrick Cariou era «minima», ha ritenuto che l’artista non avesse apportato una reale trasformazione al lavoro del fotografo. Il pittore e la galleria Gagosian, che aveva esposto «Canal Zone» nei suoi locali di Manhattan, sono stati condannati a consegnare la serie a Patrick Cariou che avrebbe potuto disporne a piacere la distruzione.
Patrick Cariou non ha però avuto il tempo di entrare in possesso delle opere: in appello, lo scorso 24 aprile, la corte di New York ha infatti in parte invalidato quella sentenza. Il giudice Barrington D. Parker che durante la seduta istruttoria aveva definito l’eventuale distruzione delle opere di Prince un atto degno «degli Unni o dei talebani», ha affermato che 25 delle opere di Richard Prince «manifestano un’estetica totalmente diversa» dalle foto di Patrick Cariou: «Là dove i ritratti e i paesaggi sereni e ben composti delle foto di Cariou riproducono la bellezza naturale dei rasta e del loro ambiente, i lavori crudi e sconvolgenti di Prince sono agitati e provocatori». Il giudice stima inoltre che le opere di Prince non costituiscono «una minaccia per il mercato potenziale» delle foto di Patrick Cariou perché non si rivolgono allo stesso pubblico: durante il vernis- sage della serie «Canal Zone» furono invitati personaggi come Beyoncé, Jay-Z, Angelina Jolie, Brad Pitt e Robert De Niro e la vendita totalizzò alla fine 10,4 milioni di dollari (8 milioni di euro). Patrick Cariou, invece, ha guadagnato appena 8mila dollari (6.140 euro) sulle vendite del suo libro Yes Rasta. In conclusione, il giudice stima che l’artista abbia fatto un uso «leale» e creativo delle 25 fotografie. Cinque di esse, invece, sono state rinviate al primo grado di giudizio per essere ristudiate. Patrick Cariou ha deciso di portare il caso davanti alla Corte Suprema.
Questa decisione mitiga e rilancia la polemica. Da un mese, i partigiani di un «fair use» meno rigoroso e i difensori del diritto d’autore dei fotografi si affrontano. «Dovrebbe essere fissato un criterio più affidabile e meno [soggetto] alle incertezze della “trasformazione” per definire l’utilizzo leale», afferma l’avvocato francese Aurélie Pacaud. «Come possono dei magistrati pretendere di giudicare tutte le forme d’arte, il cui apprezzamento è sempre soggettivo? Sembra ingiusto lasciarli decidere da soli».
Negli Stati Uniti, molti artisti, galleristi e personale dei musei temono che in avvenire tutte le forme di appropriazione susciteranno dei processi: si augurano quindi che i criteri del «fair use» siano considerevolmente ammorbiditi. Il loro portavoce è Anthony Falzone, ricercatore universitario presso la Law School dell’Università di Stanford. Questo avvocato della Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, che ha sempre difeso Richard Prince, ritiene che la decisione in appello rappresenti «una vittoria per un intero genere dell’arte moderna». Secondo lui, bisogna andare oltre allargando la libertà di utilizzo delle immagini.
A Parigi, il gallerista Daniel Templon ritiene, anche lui, che allo stato attuale il «fair use» sia un criterio troppo vincolante: a suo avviso gli artisti dovrebbero poter utilizzare in piena libertà le immagini dei fotografi a condizione, ovviamente, che l’opera non contenga un «messaggio astioso o contrario alla legge».
«Trovo che questo sia un dibattito d’altri tempi, dice. Siamo nell’epoca di internet e tutte le immagini del mondo sono di libero accesso. Che queste costituiscano una materia prima per giovani artisti che vivono già nell’epoca del sampling in musica, mi sembra evidente».
I fotografi, naturalmente, sono di tutt’altro avviso. Alain Mingam, ex redattore capo dell’agenzia Gamma, difende risolutamente i fotoreporter. «Oggi, con la scomparsa delle grandi riviste di immagini, i fotoreporter hanno già grandi difficoltà a vivere del loro mestiere», sottolinea, «considerano sleale essere saccheggiati, perché sono loro che fissano alcune delle grandi immagini dell’epoca. Alcuni di loro sono ormai riconosciuti come artisti, esposti in gallerie. È in gioco lo status della fotografia, non è un’arte minore. Con una fotografia si passa spesso dall’istante decisivo, di cui parlava Henri Cartier-Bresson, al quadro decisivo».
Yan Morvan, che è stato reporter di guerra e che ha lavorato vicino alle gang urbane, si mostra ancora più radicale. «Richard Prince non ha che da andarci lui a scattare delle foto dei rasta se vuole ridipingerli. Capirà la difficoltà dei reporter, i rischi che corrono, il talento di cui danno prova. In questo caso, si ha l’impressione che un artista ricco e famoso abbia tutti i diritti sul fotografo poco conosciuto. È il vaso di coccio contro il vaso di ferro». Yan Morvan lavora attualmente con un noto street artist che gli ha chiesto di poter riprodurre su tela le sue foto di gang. Come hanno proceduto? «Conosco la difficoltà di fotografare bande come quella dei Requins vicieux!» spiega il pittore che desidera mantenere l’anonimato. «Ho fatto un accordo con Yan. Lo citerò sulla tela e gli verserò la metà dei diritti dopo la vendita». Un uso leale, in qualche modo.

Frédéric Joignot
© 2013 Le Monde/Distributed by The New York Times Syndicate.
di Frédéric Joignot, da Il Giornale dell'Arte numero 334, settembre 2013

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