Per Vasilij Kandinskij, il cerchio era «la forma più umile, eppure drasticamente affermativa» e «una tensione che reca in sé tensioni innumerevoli». Picasso, poi, di questa forma semplice, vedeva tutta la primordialità, l’essenzialità, quando affermava: «Per quanto io lavori, arrivo sempre a un cerchio».
Questo aspetto sublime della forma primaria viene ben compreso —e trasmesso— dall’opera di Marina Apollonio (classe 1940), a cui la Collezione Peggy Guggenheim dedica in questi mesi una raffinata esposizione, tracciandone la traiettoria artistica fino ai giorni nostri.
Triestina di origine, ma cresciuta a Venezia, Marina Apollonio è —meritatamente— una delle figure primarie dell’avanguardia optical internazionale: una forza inarrestabile che dal 1963 ad oggi ha condotto una ricerca rigorosa e imprescindibile.
Vicina ad un giovane Germano Celant e in contatto con gli artisti dell’Arte Programmata, del Gruppo N e del Gruppo T, l’Apollonio era amata e apprezzata anche dalla stessa Peggy Guggenheim che ne notò il talento già nel 1968, in occasione di una personale presso la Galleria Barozzi di Venezia.
Nello stesso anno, la collezionista le commissionerà Rilievo n.505, un lavoro in cui ordinati intrecci di alluminio nascondono il verde fluorescente della tavola, andando così a creare un delicato gioco tra struttura e pittura, ulteriormente amplificato dal movimento dello spettatore. L’opera è oggi esposta accanto alla sua “gemella” di un rosso acceso, che, per la Guggenheim, andava a toccare troppo da vicino, troppo intensamente, la ferita aperta dalla prematura morte della figlia Pageen Vail.
Questi lavori si inseriscono in un ricco percorso espositivo, tra acrilici, cartoni, lavori installativi, opere in tessuto e persino un vinile, nato dalla collaborazione dell’artista con il compositore Guglielmo Bottin. La costante è però sempre la purezza della forma geometrica, che per l’Apollonio —da sempre interessata all’architettura, alla matematica e alla programmazione— non è mai costrizione, ma, piuttosto, uno spazio di attivazione e di possibilità. La sua ricerca, come ben evidenza la curatrice Marianna Gelussi nel catalogo della mostra, è «attrazione magnetica, pulsione, una sorta di eros di cui è partecipe colui che guarda».
In particolare, a prendere vita nelle sue opere è, come già menzionato, il cerchio. Esso diventa una forma in movimento, che palpita attivamente nell’occhio dello spettatore, contraendosi ed espandendosi all’infinito.
Le sue ormai celebri Dinamiche circolari, il cui impatto percettivo viene amplificato dalla rotazione meccanica o manuale, sono di ciò un esempio lampante. Esse sono infatti da intendersi quasi come sfondamenti della bidimensionalità del quadro: sono anelli concentrici che ipnotizzano chi li guarda e spingono il cerchio oltre la superficie del dipinto stesso.
Tra i tanti esempi di questa serie presentati in mostra, colpisce particolarmente il lavoro Nastro N (1968), in cui il diverso spessore della linea amplifica il senso di vertigine provato da chi guarda, mentre il tratto dell’artista diventa un nastro spesso che si dipana sullo sfondo nero.
Quest’opera ci introduce anche ad un altro elemento chiave del lavoro dell’Apollonio, ovvero la sua predilezione per il bianco e per il nero: due estremi —o meglio, due assoluti— che donano agli anelli dell’artista una logica polare.
Nonostante ciò, Marina non si vieta categoricamente il colore e, quando lo usa, è sempre di una sfumatura accesa, intensa, che squarcia il candore dei suoi lavori, come nel caso dei Rilievi circolari a diffusione cromatica, iniziati a partire dal 1971. Si tratta nuovamente di circonferenze, ma questa volta intagliate su un supporto di plastica bianca e poi dipinte nelle scalanuture così create. Camminando vicino a questi lavori, lo spettatore va dunque a “scoprire” i giochi di colore nascosti negli intagli, in un riverbero di sfumature fluorescenti.
Queste creazioni sono anche un’ulteriore dimostrazione di come l’artista non abbia mai smesso di sperimentare e di come, nel cerchio, non sia mai rimasta rinchiusa. Lo dimostra anche il lavoro più recente presentato in mostra, realizzato appositamente per l’occasione: Entrare nell’opera (2024). Qui l’Apollonio sperimenta per la prima volta con le proiezioni, creando un ambiente avvolgente che permette allo spettatore di immergersi, questa volta fisicamente, nella sua ossessione. Di questa ossessione, poi, diventiamo parte integrante e, mentre il bianco e il nero dell’Apollonio si rincorrono sui nostri volti, tornano alla mente le sue parole: «Noi dobbiamo vivere, respirare e sentirci espandere nell’arte».